Tutti
avevano sempre pensato che io fossi forte, imponente e determinato. E
in effetti la mia stazza è questo che raccontava di me.
Avevo
diciassette anni, e avevo molti amici: persone che contavano su di
me, sul mio appoggio, sulla mia protezione.
Ed
ero felice: erano passati gli anni in cui ero stato evitato,
allontanato per paura e pregiudizi.
Non
ero mai stato un ragazzo tanto socievole e facevo fatica a farmi
accettare dagli altri. I ragazzini della mia età avevano timore di
me perché ero alto e abbastanza grosso. Avevo sempre l’aria
imbronciata e parlavo poco.
Non
capivano che forse era timidezza, la mia. E che io avevo più paura
di loro di quanta ne avessero loro di me.
Sapevo
cosa volevano dire, quindi, la solitudine, l’isolamento, le prese
in giro, gli sguardi sprezzanti. Ero convissuto con quelle cose per
molto tempo.
Ora
che ero arrivato ai diciassette anni, ero riuscito a farmi più
coraggioso, più determinato. Pian piano le persone che mi
circondavano avevano imparato a conoscermi e si erano ricredute.
Ora
avevo degli amici, finalmente potevo contare su qualcuno.
Ma
questo non mi impedì di provare come una forte stilettata allo
stomaco nel vedere quella scena: una scena che racchiudeva una
violenza ed una irrazionalità inaudita.
Era
mattina e mi stavo dirigendo a scuola, lo zaino in spalla. Ero in
ritardo, come al solito, e nel cortile non c’era molta gente.
Solo,
in un angolo vicino al cancello, un gruppo di persone. Avevo
strizzato gli occhi per vedere meglio, avvicinandomi alla scena.
Cinque o sei ragazzini erano chini su una figura diversa, più
minuta.
Misi
meglio a fuoco, ormai ero a pochi passi da loro.
I
ragazzi potevano avere quindici o sedici anni, mentre il ragazzino
che tenevano sotto torchio circa tredici. Era di colore.
Provai
anche una strana stretta allo stomaco a quella vista, e deglutii, un
sapore amaro in bocca. Il ragazzino aveva un occhio gonfio e un
labbro spaccato da cui usciva un rivolo di sangue fresco.
Sentii
in me montare la rabbia. Cosa aveva potuto fare di male quel
ragazzino per meritarsi di essere picchiato così selvaggiamente?
Piangeva,
ma senza emettere un lamento: le lacrime scorrevano silenziose sul
suo viso.
-Hai
capito chi comanda qui?- stava dicendo uno dei ragazzi più grandi.
-Uno
schifoso negro come te, deve sottostare ai nostri ordini, capito?
Sennò ne avrai ancora- disse un altro, tirando i capelli al
piccoletto.
Ne
ebbi abbastanza. Rivedevo in quegli occhi pieni di paura i miei,
nell’isolamento del ragazzino i miei anni di solitudine. Nella sua
“diversità”, riconoscevo un po’ la mia.
Solo
che io, tra i due, ero il più fortunato.
-E’
per questo che lo avete picchiato?- chiesi, alzando la voce.
I
ragazzi si voltarono a guardarmi, sorpresi: non si erano accorti
della mia presenza.
-Perché
è di colore?- continuai.
Uno
di loro rise. Un altro mi rispose.
-Non
lo vedi com’è? Non vale niente.-
Mi
avvicinai, i pugni serrati.
Sarebbe
stato ingiusto picchiare quei ragazzini presuntuosi e arroganti,
vero? Ma non potevo lasciare il bambino nelle loro mani.
-Siete
voi che valete meno di niente- sputai tra i denti, quasi ringhiando.
I
ragazzi parvero inquietarsi. Anche se erano in tanti, io li
sovrastavo tutti.
Ma
erano dei vigliacchi. Capaci solo a prendersela con i più deboli e
non a vedersela con qualcuno alla pari.
-Lasciatelo
stare- dissi, semplicemente.
Il
ragazzino alzò gli occhioni e mi fissò, incredulo: aveva un ché di
speranzoso e dolce nello sguardo.
Poi,
timidamente, accennò un sorriso.
Fu
allora che capii di aver fatto la cosa giusta. Lo sapevo fin
dall’inizio, ma quel sorriso mi fece capire tante cose. Quel
ragazzino, nonostante tutto attorno a lui fosse un marciume, aveva
ancora la forza di sorridere.
“La
diversità, la diversità. Dov’è la diversità? Ha un sorriso che
è migliore del mio!” pensai, sentendo un senso di protezione nei
confronti del ragazzino crescere in me.
I
ragazzi idioti alla fine se ne andarono. Sembravano pensierosi e
tristi. Come se non ricordassero effettivamente perché si fossero
accaniti così nei confronti del ragazzino e si sentissero degli
stupidi.
Forse,
adesso avrebbero capito.
Mi
avvicinai al ragazzino di colore, che ancora tremava. Tuttavia il
sorriso non era scomparso dal suo viso.
-Grazie!-
disse. E poi, inaspettatamente, mi abbracciò. Un abbraccio rapido,
ma carico di affetto e riconoscenza.
Che
forza che aveva quel ragazzo. Forza e speranza nel futuro.
Gli
tesi la mano. –Piacere, mi chiamo Claudio.-
Lui
me la strinse. Mi fece uno strano effetto vedere le nostre mani, così
contrastanti nel colore, stringersi.
Ma
fu una cosa fantastica.
Dietro
il nostro aspetto un po’ diverso c’erano solo due ragazzi, con un
cuore, dei sentimenti.
Con
un futuro, dei progetti, degli amici, una famiglia, della voglia di
vivere.
Capii
che non esistevano vere differenze tra noi. E che chi si ferma
all’apparenza non merita di provare la sensazione di pace e di
complicità che provavo io in quel momento.
-Piacere
di conoscerti, io mi chiamo Sefu-
Aveva
un accento strano ma simpatico.
“Il
razzismo è violenza, ignoranza e stupidità” pensavo mentre mi
accingevo ad affrontare la vita con il mio nuovo amico Sefu e tutti
gli altri abitanti della terra, indistintamente.
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